Con Bronco la mascherina di Orville Peck arriva a Nashville
Un cowboy gay dalla biografia misteriosa e dal volto coperto con mascherina dalle lunghe frange. Un’opera prima, Pony, che esce nel 2019 e sfodera un suono country fra Roy Orbison, Elvis e… Angelo Badalamenti su cui vengono narrate storie nobilmente e malinconicamente queer.
Può essere un guizzo destinato in gran fretta a una teca nel museo delle eccentricità rock. Invece Orville Peck continua a lavorare sul proprio mistero buffo, nonostante la pandemia gli impedisca di affermarsi come riconoscibile personaggio da palco. Lo dimostra il video dello scorso anno dove reinterpreta Jacskon di Johnny Cash e June Carter insieme alla nota drag queen Trixie Mattel. E se mancan0 i concerti, arrivano comunque il contratto con la Columbia e il trasferimento a Nashville per incidere il secondo album insieme a scafatissimi sessionmen cittadini e a un produttore affermato come Jay Joyce. Cosa ci si possa aspettare dal disco lo anticipa il titolo: il Pony è diventato un possente, scalpitante Bronco.
Orville Peck e le novità di Bronco
Possente e scalpitante è anche la traccia d’apertura, Daytona Sand, sorta di country glam che nel testo (e nel video) ammicca a un “bel biondone”. L’album è già tutto qui e il resto del programma è solo una sequenza di variazioni (molto ben strutturate grazie alla ricchezza di mezzi a disposizione) su un tema che così potremmo descrivere: adesione agli stilemi di Nashville associata a una sessualità che a Nashville non piace. E’ quello che da anni fa (anche se lo abbiamo scoperto di recente) Patrick Haggerty/Lavender Country in versione ingigantita, spettacolarizzata e senza sottotesti socio-politici.
Se si lascia da parte tutta l’apparato estetico-programmatico, tanto interessante quanto ammiccante ormai allo scandaletto a orologeria, non è che gli esiti sonori siano poi entusiasmanti. La title track è troppo carica di estrogeni (o dovrebbe essere testosterone?); Trample Out the Days è countrypolitan stereotipato che funziona come nei dischi recenti di Sturgill Simpson (ovvero così così); Kalahari Down tenta con poca fortuna e troppa orchestra la strada dello Springsteen nostalgico di Western Skies. Un po’ meglio va Let Me Drown, lentone possente/struggente che con l’alcolico giusto qualche lacrima la strappa. Le cose più piacevoli sono invece quelle che adottano toni quasi sommessi (Hexie Mountains, City of Gold) oppure ricordano i modi spicci del primo disco (Any Turn, Lafayette). La voce si adatta con qualche incertezza alla rutilanza dell’insieme e se il referente è anche qui Presley, un paragone più gestibile è con il bravo e poco noto “outlaw” Billy Joe Shaver.
Quale futuro per Orville Peck?
Tutto considerato, rispetto a Pony manca sia l’effetto sorpresa sia la dimensione notturna e intrigante del primo album; manca la gestione alla fin fine apprezzabilmente leggera dell’ambiguità del marchio Orville Peck. E il fatto che le frange ormai lascino scoperta la bocca, rendendo quasi inutile la maschera, fa perdere un altro po’ di magia. Speriamo solo che il quadrupede del prossimo disco non somigli a Furia Cavallo del West.
Be the first to leave a review.