PJ Harvey - The Hope Six Demolition Project Demos

The Hope Six Demolition Project Demos: un altro gioiello nella corona ‘alternativa’ di PJ Harvey

Con i demos di The Hope Six Demolition Project viene da pensare che, arrivati all’oggi, salvo sorprese, si inizi a intravedere non lontana la fine di un fascinoso percorso a ritroso lungo le tappe di un passato musicale di così grande qualità e tenuta che non si saprebbe quasi dove cercare, e trovare, paragoni.

Il duro gancio sferrato ai genitali dell’ipocrisia occidentale da The Hope Six Demolition Project continua a bruciare; la sua sgradevole e sgradita aria d’accusa, a far male. Chi scrive ama questo disco senza riserve e senza moderazione. Sono anzi convinto che esso abbia, come unico difetto, quello di venire dopo un capolavoro con ogni probabilità non superabile neppure da chi commerci in arti magiche  come PJ Harvey, quel Let England Shake così perdutamente e dolorosamente insulare, al contempo così profondamente inglese e così universale nella sua preghiera civile: asciutto, privo di illusione, digiuno di lacrime e speranza.

Rispetto ai demos di cui abbiamo scritto le volte passate, fossero le foglie cadenti in bianco e nero di To Bring You My Love o le ruvide e suggestive acqueforti di Let England Shake, qui è il paradigma che cambia, che si ribalta.

The Hope Six Demolition Project: cosa cambia fra demos e versione definitiva

I demos di To Bring You My Love ci avevano offerto un dimesso, slavato volto casalingo; quelli di Let England Shake, nella loro ruvida anima acustica, fotografavano l’anima severa di un disco partecipe e impietoso. I demos di The Hope Six Demolition Project fermano il processo creativo a un punto più lontano dalla finitura. Sei minuti di musica separano queste registrazioni dalle gemelle date in pasto al pubblico nel 2016, ben più prodotte e arrangiate, e anche, nel complesso, più distese e ampie.

Di questi sei minuti di musica in più, gran parte sono risucchiati da River Anacostia, da The Ministry of Social Affairs e da Dollar, Dollar. Quel che conta però non è la riga tirata fra il dare e l’avere dell’una canzone o dell’altra, ma l’evidenza di come, ricondotto allo scheletro di voce (talvolta proiettata in registri assai acuti), chitarra, fiati e tessuto percussivo, The Hope Six Demolition Project veda ingigantire le sue già impressionante dimensione musicale.

Chi scrive si era innamorato al momento del primo ascolto, quasi sopra ogni cosa, e forse contro i suggerimenti del buon senso, di The Orange Monkey. E ora rieccola qui, appoggiata quasi soltanto su un tessuto scheletrico di organo e tastiere, la voce spinta fino a registri di trasparenza assoluta, a disegnare una linea melodica meno regolare e prevedibile. Il risultato è un vero e proprio capolavoro, che oltre a regalare quasi un minuto in più di incanto rispetto alla versione finale e finita del 2016, è di una bellezza sconvolgente. La canzone è nuova e diversa, quasi non fosse esistita prima.

Un paradigma ribaltato

The Community of Hope, che apre il disco, per sole chitarra e voce, suona più cantante e cullata al tocco di sei semplici corde e abbaglia di semplicità ed umiltà. Medicinals e The Ministry Of Social Affairs splendono libere in tutta la loro potenza espressiva. La terribile Dollar, Dollar mostra senza ritegno la sua anima dolente. E si potrebbe continuare.

Si potrebbe continuare perché è il paradigma, adesso, ad essere ribaltato. Se in To Bring You My Love le versioni demo parevano strappare un abito necessario, se di Let England Shake i demos svelavano la natura più intima, in The Hope Six Demolition Project il minor peso di incisioni e sovraincisioni sembra sprigionare, al massimo grado, la potenza emotiva implicita nelle canzoni, che è quanto dire nella loro vera, unica, profonda ragione creatrice: la voce di PJ Harvey. Corda di violino dell’anima, che vibra da sempre dell’amore e del dolore, della rabbia e della dolcezza della vita. Quella sua, quella nostra; ma anche quella degli altri, quella di tutti.

PJ Harvey - The Hope Six Demolition Project Demos
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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