Big Colors: seconda parte di una trilogia programmata per il 2019, prima che Ryan Adams…
Pare che – fortunatamente – le polemiche scatenate dal ritorno discografico di Ryan Adams con l’album Wednesdays non siano state abbastanza forti dal fermare la sua voglia di ritrovare le luci della ribalta. Un bene per chi comunque continua ad apprezzare il suo grande sforzo produttivo e artistico.
E così dopo pochi mesi siamo qui a parlare di Big Colors, secondo capitolo di una trilogia registrata ormai più di tre anni fa, ma rimasta nel cassetto in attesa di tempi meno burrascosi per la reputazione dell’artista (le tristemente note accuse di molestie). Anche stavolta pare che qualcosa sia stato variato rispetto al progetto originario, così come Wednesdays era uscito in una versione ridotta rispetto a quella annunciata tempo fa.
Big Colors e l’amore di Ryan Adams per il brit-pop
In attesa del terzo capitolo (che potrebbe uscire già comunque entro la fine del 2021), fa piacere constatare come Adams, pur nella sua inarrestabile “iper” (e forse anche “sovra”) produzione, riesca comunque a dare una personalità precisa alle proprie creature discografiche. E così se Wednesdays esaltava il suo lato più intimista e cantautoriale, Big Colors segue invece la vena radio-friendly di album come Prisoner o Cardinology. D’altronde la title-track posta in apertura ribadisce tutto il suo mai nascosto debito verso il pop inglese (il suo primo album solista si apriva con una discussione su Morrissey ad esempio), ma è l’intero disco che cerca nuovamente quella perfetta sintesi tra rock americano e un gusto melodico tutto “british” che aveva trovato la sua perfezione formale in Love Is Hell del 2004, tanto che persino la cover Wonderwall degli Oasis pareva un suo brano.
Troppa produzione per Big Colors?
Stavolta però il risultato è alterno. L’utilizzo di una produzione(c’è Don Was ad aiutarlo) che riporta in evidenza le batterie nuovamente “grosse” – ritornate in auge in questi anni dieci dopo che l’indie-folk le aveva fatte sparire per lungo tempo – a volte pare un po’ forzato e non necessario (Fuck the Rain non perderebbe vigore senza, ad esempio). Gli esiti migliori sembrano arrivare laddove Ryan si concentra più sulla canzone(Manchester o le più convenzionali What Am I e In It For The Pleasure) che sull’effetto che desiderava ottenere.
Ci sono anche episodi che escono con successo dai suoi schemi abituali (l’hard-rockabilly di Power ad esempio), ma altrove Adams va in cerca di un suono da rock FM anni ‘80 che non gli si addice troppo. Se paragonassimo infatti Do Not Disturb ad un brano del miglior Chris Rea credo che neppure lui si scandalizzerebbe, mentre cose come I Surrender o Middle Of The Line, per quanto piacevoli, ha smesso da tempo di farle persino Bryan Adams, quello con la B in più. Eppure, sebbene il disco non abbia lo stesso spessore del suo predecessore (e credo che verrà in futuro annoverato tra i suoi episodi minori), Big Colors riesce a confermare ugualmente la statura eccezionale di questo artista, ancora capace di sbagliare con gusto.
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