Salem - Fires In HevenAutoprodotto - 2020

Dopo dieci anni  tornano i Salem con Fires In Heaven.

Salem - Fires In Heven
Autoprodotto – 2020

“We come in the age’s most uncertain hours”. Paul Simon e i Salem sembrano avere poco in comune per stile di vita e di musica. Eppure questo verso di American Tune sembra scritto apposta per i tre, oggi due, disgraziati del Midwest (da qualche tempo trasferiti in qualche stato del Sud, dicono le fonti) che hanno preso il nome dalla città della caccia alle streghe.

John Alexander Holland, Jack Donoghue e Heather Marlatt iniziano a far parlare di sé più o meno in coincidenza con il crollo di Wall Street del 2008 e pubblicano il primo album King Knight  nel 2010.  Lo sticker di Rough Trade descrive il loro suono come “immense and claustrophobic”. Si potrebbe parlare di pop da incubo e di hip hop sudista in chiave white trash. L’effetto complessivo è quello di un sublime andato a male e i Salem sembrano perfetti per un’epoca di crisi e degrado. Addirittura vengono eletti a rappresentanti supremi di un genere chiamato Witch House.

Salem - King Knight

I lunghi anni di silenzio dei Salem

Giusto il tempo di diventare alt-trendy e i nostri scompaiono quasi nel nulla, facendosi appena notare per qualche remix, per foto su Instagram tra l’ineffabile e l’angosciante e per la presenza di Donoghue come “produttore aggiunto” su Yeezus di Kanye West (Dio li fa e poi li accoppia, gli scoppiati, anche se quello fu un gran disco).

L’inizio del 2020, oltre che la pandemia, porta con sé l’annuncio dell’uscita di Marlatt dalla formazione. Intanto Holland e Donoghue postano foto in cui sfoggiano da barbe da boscaioli a cui non si vorrebbe mai mettere in mano un’accetta e annunciano nuova musica.

Cosa si ascolta in Fires In Heaven

Il secondo disco del trio diventato duo, Fires In Heaven, arriva più o meno in coincidenza con la seconda fase Covid. Anzi, lo si può descrivere come disco-simbolo del triste momento: plumbeo, inquietante, invasivo.  Lo dimostra subito l’ouverture sinfonica di Capulets,  ovvero un campione – potente e truzzo – della Danza dei Cavalieri dal Romeo e Giulietta di Prokof’ev  su cui entra in campo la voce drogata, strascicata di Donoghue: “Money came along problems/ Shit got me like hell naw/ Ask me what I’m doing with my life, ain’t shit to tell ya’ll”. Dieci anni e niente è cambiato nell’universo Salem?

Rispetto all’opera prima, Fires In Heaven si propone come più vario e di più ampio respiro, ma non meno temibile. Se la title-track ritorna alla dimensione di shoegaze degenerato che era il topos maggioritario di King Knight, Crisis unisce  “fissascarpe” e e hip-hop all’interno di un gran lavoro di stratificazione e rallentamento delle voci. “I hate it, I hate it, waking on cold nights sweating/ Never learning  on lessons/ I hate it, I-I should have died on that pavement”. Che ci sia finalmente la consapevolezza che così non si può andare avanti?

 

Il resto del programma prosegue questa moderna odissea in un mondo deformato come specchi da luna park, ma molto reale nella sua angoscia.  Ci sono però momenti sorprendentemente delicati. Ad esempio, Starfall sfodera una melodia struggente su un avvolgente labirinto di tastiere con un effetto complessivo di grande onestà emotiva. E c’è anche il distico più romantico nella storia del gruppo: “And I know we have only just me / But I don’t want to see you cry”. Poi però la storia d’amore finisce perché “I got no answers”. Roba da far morire d’invidia l’ultimo, autocompiaciuto Bon Iver.

I Salem stanno cambiando?

Tutto il disco illustra come i Salem abbiano ampliato i loro orizzonti sotto un cielo comunque plumbeo. Ad esempio la conclusiva Not Much Of A Life, spogliata dei tanti suoni, potrebbe essere un pezzo da cantautore, ma nel senso di James Taylor e non di Sufjan Stevens. Altrove si ritorna a più consuete apocalissi, come nel caso di Red River nella quale serpenti e avvoltoi sembrano identificare i biechi controllori della nostra civiltà. I Salem stanno addirittura sviluppando una coscienza sociale?

Il produttore losangelino Shlohmo (Corbin, Yung Lean) ha sicuramente dato un contributo importante nel dare forma ai materiali (piuttosto grezzi a quanto si dice) che gli sono stati affidati trasformandoli in brani corti ma efficaci, quasi frammenti che scompaiono in un attimo come sogni.  Non a caso il disco dura 29 minuti – mentre King Knight arrivava a 43 –  che è poi la sua dimensione perfetta.

 

Ci sono dunque brecce di tenerezza, e persino di autoanalisi, nella musica dei Salem. D’altra parte viene da chiedersi se la loro scorza di cattivi ragazzi sia poi così dura. Chi scrive li ricorda a Milano esausti dopo 40 minuti di performance e poi felici di avventarsi su un piatto (in plastica) di spaghetti poco conditi che probabilmente rappresentavano il loro pasto più nutriente degli ultimi mesi.

Ecco allora che nell'”ora massimamente incerta” di cui si diceva all’inizio i Salem risultano perfetti e persino utili (incredibilmente!) a farci sentire meno soli, specie dopo le 22 del coprifuoco. Ci si chiede solo cosa capiterà in coincidenza con il loro terzo disco.

Salem - Fires In Heaven
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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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