Abbandonati i progetti precedenti, Shabaka Hutchings pubblica Perceive Its Beauty, Acknowledge Its Grace.
Probabilmente tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo pensato di fermarci, di abdicare alla frenesia quotidiana, di scomparire per dedicarci a una segreta passione o semplicemente alla contemplazione. Shabaka Hutchings, il geniale e proteiforme ideatore di Sons of Kemet, The Comet Is Coming, Shabaka and the Ancestors, lo ha fatto. Ha deciso di rinunciare a tutti i progetti in corso, tra i quali c’era anche il Concerto per clarinetto di Aaron Copland con un’orchestra da camera; e, per rafforzare la scelta, ha rinunciato al suo strumento, il sassofono tenore.
In una lunga intervista al Guardian con Alex Petridis (il critico di punta del giornale inglese per il rock e il pop) ne ha spiegato i motivi. Shabaka considera really great and satisfying quanto creato con i suoi gruppi. Ma ha aggiunto che l’unico modo per mantenere la scintilla della creatività è seguire le proprie intuizioni, sfuggendo al rischio di ripetersi e di produrre musica stantia, di finire a suonare quello che la gente vuole (ri)ascoltare.
La scoperta del flauto shakuhachi
Così, complice un flauto shakuhachi comprato l’anno precedente in Giappone, si è dedicato allo studio di uno strumento per cui servono da sei mesi a un anno per ottenere un suono; e poi da sette a otto per sviluppare una tecnica sufficiente a suonarne il repertorio. Tanto che nel suo percorso di apprendimento il Giappone arriverà tra un paio d’anni, dopo essersi esercitato in Brasile, in Mauritania, in Senegal, in Marocco, quando sarà finalmente pronto per studiare con un autentico maestro di shakuhachi.
Oltre il jazz
Nel frattempo, poiché il suo concetto di ‘fermarsi’ è diverso da quello di noi comuni mortali, dopo il mini lp Afrikan Culture del 2022, ecco Perceive Its Beauty, Acknowledge Its Grace (Impulse!). Registrato in sei giorni ai leggendari Van Gelder Studio, accolto in maniera positiva dalle riviste che contano (Pitchfork gli ha dato 8, Mojo e il Guardian 4 stelle su cinque), il disco riflette perfettamente le intenzioni del suo autore.
Possiamo serenamente affermare che non c’è jazz in questo disco (e infatti il Guardian non ha affidato la recensione a John Fordham, ma a Kitty Empire, normalmente applicata al pop); e il sax tenore vi appare solo nell’ultimo minuto di un brano, Breathing.
Il fascino di Shabaka – Perceive Its Beauty, Acknowledge Its Grace
Eppure è praticamente impossibile sottrarsi al fascino di un universo sonoro fatto di pura grazia soave, in cui si entra fin dal programmatico End of Innocence (con Jason Moran al piano, Nasheet Waits alla batteria, Carlos Niño alle percussioni). O dal secondo brano, As the Planets and the Stars Collapse, con Miguel Atwood-Ferguson agli archi e Brandee Younger e Charles Overton alle arpe, puro spiritual (senza jazz, come detto), ammaliante e coinvolgente. Ognuno degli undici brani (poco di più di 46 i minuti totali) ha protagonisti diversi e inevitabilmente il risultato è diseguale: convincenti le partecipazioni di vocalist come Moses Sumney in Insecurities o di Lianne La Havas in Kiss me before I forget.
Meno riuscite le tracce con voce recitante e declamante, come Managing My Breath, What Fear Had Become con Saul Williams o Song of the Motherland con Anum Iyapo.
Da segnalare infine I’ll Do Whatever You Want con Laraaji, Floating Points, Esperanza Spalding e André 3000 (il cui disco al flauto di qualche mese fa non regge l’inevitabile confronto). Forse non è superfluo riaffermare quanto la partecipazione di chi ascolta sia importante in un disco che tanto assomiglia a una riflessione personale: così come ha fatto Shabaka, bisogna essere capaci di fermarsi e di dedicarsi completamente alla musica. Solo in questo modo si riuscirà a percepirne la bellezza e a riconoscerne la grazia.
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