Terzo disco per gli Shame: Food for Worms punta al successo.
Con il terzo album, Food for Worms (Dead Oceans), gli Shame puntano in alto. Con il celebre Flood alla produzione (lo ricordiamo almeno in associazione a U2, Depeche Mode, Nick Cave, PJ Harvey) e il loro più grande tour da headliner fino ad oggi. Ricordiamo che il quintetto londinese (composto oggi come in passato da Eddie Green, Charlie Forbes, Josh Finerty, Sean Coyle-Smith, Charlie Steen) aveva esordito con un LP, Songs of Praise, nel 2018, che li collocava all’interno del grande revival post-punk di questi anni, con canzoni dirette ed efficaci che ancora oggi sono nel cuore di quanti amano quel suono. Nel 2021 hanno pubblicato Drunk Tank Pink, il disco che ha ampliato il loro suono, soprattutto grazie a una ritmica più complessa. Gli Shame hanno scritto i pezzi di Food for Worms mentre erano in tour per promuovere Drunk Tank Pink, e nonostante la promozione accurata il disco mantiene una certa dimensione live, diretta.
Gli Shame in cerca di identità
Con Food for Worms, però, gli Shame cambiano e si allontanano ancora di più dagli esordi e dal post-punk. Pur restando in un ambito che possiamo definire ‘indie’, guardano oltreoceano inglobando qualcosa del suono dei primissimi anni ’90 (dai Fugazi ai Pavement), quelli pre-grunge, ma anche accostandosi a tentativi recenti di costruire un rock alternativo che abbracci la complessità strumentale e compositiva, black midi in testa. Rispetto al passato, inoltre, Charlie Steen canta di più e declama di meno, con buoni risultati. Le nuove istanze degli Shame si percepiscono più chiaramente verso la fine di Food for Worms, nell’altalenante Different Person, fra accessi di furia e momenti di tranquillità, e poi nella ballata corale, All the People, che chiude splendidamente la sequenza (“and it’s finished”, dice Steen in conclusione).
I punti di forza del disco
Non mancano momenti più immediati: l’iniziale Fingers of Steel, già uscita come singolo con un video nel quale la band si prende gioco dell’ossessione per i social media come promozione verso il successo, e del narcisismo insito nell’attività di frontman dell’improbabile rock-star Charlie Steen (con risultati più ridicoli che graffianti, a dire il vero).
Six-Pack (gli addominali perfettamente scolpiti), sulle illusioni che si coltivano in privato “within this room” (Everything you see Is free within this room And your ex-wife and ex-daughter Who hate your guts to death They love you Within this room) è l’episodio che più si lega al post-punk degli esordi, almeno finché non partono chitarre a cascata che ci portano in un’altra direzione. Adderall, forse il momento migliore, parla in modo molto diretto della dipendenza da droghe da prescrizione (As you say that it’s fine That word you use all the time That you don’t need to quit You’ll just handle it, yeah) ed è, con Yankee, il passaggio più ‘americano’ di tutti. Contiene anche un featuring di Phoebe Bridgers che a quanto pare registrava accanto a loro, ma non si sente più di tanto.
Il disco mostra anche qualche calo, qui e lì, ma nel complesso la ricerca di identità degli Shame può dirsi riuscita; i cinque hanno trovato una loro dimensione fuori dalle facili etichette, ed è sempre il passo meno facile per un band degli anni 00.
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