Stroszek: un nome d’arte emblematico per Claudio Alcara.
In un tempo tecnicamente non troppo lontano, ma che pare emotivamente remotissimo (si andava al cinema, si ascoltavano i dischi), Werner Herzog girò un film disperato che s’intitolava La ballata di Stroszek. Tre anni dopo, in una sera di maggio, il cantante dei Joy Division Ian Curtis guardò quel film. Il seguito della storia è noto…
Date queste premesse, un progetto nato nel 2007 – a cui viene dato il nome di Stroszek è difficile abbia esiti sonori lieti. A dispetto di questo, e a dispetto di un titolo come About all The Bad Days In The World, c’è qualcosa di elusivamente vitale nel quarto album realizzato con questo moniker da Claudio Alcara, forse più noto come fondatore e primo motore dei Frostmoon Eclipse, band storica della scena death metal. Ma di questa caratteristica del lavoro si dirà meglio più avanti.
Dai Frostmoon Eclipse a Stroszek
Claudio/Stroszek usa pochissimo l’amplificazione e ricorre a suoni quasi sempre acustici, dunque staccandosi piuttosto nettamente dai FE. Lì il ‘fuori tutto’ qui una dimensione più introspettiva e autoriale. È un po’ quello che fece Mark Lanegan quando lasciò gli Screaming Trees o il meno noto Robin Proper-Sheppard nel suo passaggio dai God Machine ai Sophia, mentre qui si tratta di percorsi paralleli.
I brani di About All The Bad Days In The World
Le iniziali Awkward e Fall Of ’94 forniscono subito le coordinate dark folk di questa esplorazione lungo “tutte le cattive giornate del mondo”. La successiva Scrap Wood propone accenni ritmici e una chitarra quasi psych. Chi, a questo punto, paventi un disco peso e monocorde troverà nei pezzi successivi coloriture e inserimenti sempre efficaci: lo spettrale organo di Some Waiting Room e la voce di Henri Koivula degli Shape Of Despair in Sidetracked. Il passaggio strumentalmente più articolato (più ‘rock’) è rappresentato dall’unica cover presente, The Stoppin’ off Places, dal repertorio dei Walkabouts (sta su Devil’s Road, uno dei loro album più belli).
La parte conclusiva propone due momenti da folk di frontiera (alla Sparklehorse?) come Any History Of Heartbreak e Wasn’t Really Gone e il gran finale epico di The Beast Who Dreams of Man, dimostrando come il disco, se può essere tacciato di oscurità, è anche ricco di variazioni sul tema. E qui ritorna il discorso prima accennato sulla musica elusivamente vitale di Stroszek: certo, siamo di fronte a un disco di cupo, ma anche a un disco accogliente, che rende questa cupezza avvicinabile e, a suo modo, comunicativa.
No, qui non finisce, per fortuna, come in quel film o quella sera a Macclesfield…
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