Con A Dream Is All We Know i Lemon Twigs perfezionano il loro passatismo ‘fatato’.
Tomtomrock segue con affetto i Lemon Twigs fin dal loro primo album Do Hollywood. È vero, sono revivalisti irriducibili ed è vero che ogni loro suono o armonia vocale guarda sempre indietro e mai avanti. Ma per i due fratelli D’Addario un avanti non esiste e qui sta il loro fascino.
Viene sovente citata – come manifesto programmatico del riuso creativo – una frase del regista nouvelle vague Jean-Luc Godard, “non è da dove prendi le cose, è dove le porti”. Ecco, Brian e Michael le cose le portano in una loro immutabile cameretta da adolescenti che si trasforma in un iperspazio fatato – un po’ tipo quello del film Barbie – dove tutto fluisce e rifluisce e dunqe il 1966 può anche arrivare dopo il 1974.
L’evoluzione (lenta) dei Lemon Twigs dagli inizi a oggi
In effetti i primi dischi dovevano molto a certo rock un po’ truzzo un po’ vaporoso di metà anni ’70 (Foreigner, Michael McDonald, Toto…), mentre Everything Harmony (2023) e A Dream Is All We Know (Captured Tracks) possono essere ambientati nella seconda metà del decennio prima. Considerando che sono usciti a meno di un anno di distanza l’uno dall’altro li si potrebbe vedere come un’opera unica con una prima parte più pensosa e una seconda più allegra. Il suono è meno caleidoscopico rispetto alle origini, tanto che i diretti interessati lo hanno descritto come “Merseybeach”.
Il primo pezzo, My Golden Years, è tutto virato verso la parte ‘beach’ (Beach Boys, ovviamente, ma anche Byrds), mentre più avanti ci si sposta più decisamente lungo il ‘mersey’ beatlesiano, al punto che In The Eyes Of The Girl vede apparire in veste di produttore Sean Ono Lennon (chissà quante domande gli hanno fatto su papà).
A Dream Is All We Know: un sogno ben rifinito
L’album è tutto molto sentimentale-adolescenziale e anche qui si ritorna alla cameretta fatata di cui sopra, visto che i Brian e Michael l’adolescenza l’hanno finita da un pezzo e sono ormai artisti esperti: quando rischiano di cadere nel kitsch o nel mieloso da guaietto sentimentale raddrizzano la situazione con qualche guizzo insolito tipo il banjo di Church Bells o la tastiera da radio FM di Sweet Vibration. Ancora una volta la scrittura è da manuale (manuale con scritto Sixties sopra, s’intende), mentre suono e armonie vocali sono impeccabili. Verso fine programma Peppermint Roses modifica in parte la situazione fondendo nuovi e vecchi Lemon Twigs in una dimensione appena psichedelica che non rimanda più a nessuno; un piccolo capolavoro oltre che una possibile indicazione per sviluppi futuri.
Si potrebbe dunque dire che i Lemon Twigs non sono veramente nostalgici o passatisti o fuori dal tempo. È che il loro tempo ha le modalità del sogno, come spiega il titolo del disco. O forse sono molto bravi a far finta che sia così.
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