Two Years è il primo album dello strano e talentuoso Whitney K.
Sulla copertina di Two Years il giovane talento nord-canadese Whitney K. ha una faccia parecchio strana (come se sotto il giubbotto di jeans nascondesse licheni di contrabbando). E forse un po’ strano lo è davvero. Intanto ha impiegato cinque anni per dare seguito all’EP Goodnight, però intitolando “Due anni” questo primo LP. Poi ha trascorso infanzia e adolescenza a Whitehorse, capitale e unica ‘città’ dell’immenso e vuoto Yukon, dove d’inverno c’è poca luce e d’estate ce n’è troppa (ma la cosa davvero preoccupante è e che da qualche anno ha deciso di tornarci). Infine, per continuare a parlare di luoghi, la canzone che chiude Two Years è un inno sentimentale ambientato in una località balneare da film distopico come Ocean City, Maryland. Da ultimo il nome: Whitney K. farebbe inevitabilmente immaginare una cantante nu-soul e invece ci troviamo davanti a Konner Whitney, di mestiere cantautore più o meno folk.
Canzoni e suggestioni di Two Years
Dunque un bel tipetto, ma che dire del disco? La cosa più importante è l’indubbia sintonia fra la musica e il tipetto medesimo. Qualcuno ha descritto Two Years come l’album di una rinascita spirituale, rinascita caratterizzata da un certo torpore iniziale da cui si evolve una presa di coscienza delle proprie responsabilità individuale – tutto nella prima canzone – per poi passare all’atto d’accusa verso le politiche energetiche canadesi in Trans- Canada Oil Boom Blues. Come melodie si vada da un folk esistenzialista-litanico a un blues nervoso alla Bob Dylan 1965/Velvet Underground 1968. Il resto del disco si evolve secondo una dimensione tra il pigro e lo stuporoso nel solco del connazionale Mac DeMarco o di Josh T. Pearson (Me Or The Party #165 #166, The Weekend) con improvvisi soprassalti in chiave più o meno indie country (Last Night # alla Silver Jews).
Whitney K e il suo strano storytelling
Quanto alla rinascita spirituale, ci sono lungo il percorso dubbi esistenziali (“dimmi chi ami? Me o la festa?”) e piccole lezioni di vita (“Avere tutto/ Non significa avere tutto nello stesso momento”) per arrivare infine alla già citata Maryland, la canzone più bella e più melodicamente compiuta del disco, un inno all’amore on the road, con un’ambientazione non proprio da cartolina (il Maryland, appunto, ma quando c’è l’amore si sa che il posto poco importa).
Ecco, se qualcosa manca a Two Years è una maggiore strutturazione sonora: tutto è simpatico, tutto è interessante, ma solo Maryland -assieme forse a Me And The Party – è davvero memorabile. Sarà comunque interessante vedere come si svilupperà il talento, senza dubbio apprezzabile, di Whitney K. Se non scomparirà altri cinque anni.
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