Il “fratellino” degli Arcade Fire al secondo disco: Will Butler – Generations.
Varietà ed eclettismo: sono i due termini che mi pare meglio di ogni altro riescono a definire la musica propostaci da Will Butler degli Arcade Fire, giunto in questi giorni alla sua seconda prova solista. Sono trascorsi ormai cinque anni dalla pubblicazione di Policy, l’album del suo insolito ma riuscito debutto. Il nuovo lavoro, Generations, si iscrive nella scia della sua opera prima, contribuendo a definire uno stile sempre meno frammentario e delle sonorità che traccia dopo traccia arrivano a descrivere con precisione un universo musicale complesso e raffinato. Un secondo capitolo dunque perfettamente riuscito per un artista sempre meno timido e titubante.
Dieci i brani inclusi nell’album, per una durata complessiva di circa quarantacinque minuti. E’ Outta Here ad aprire le danze: un classico pezzo rock, tutto in crescendo, dalle cadenze nervose, introdotto e puntellato per tutta la sua durata dalle note del sintetizzatore, strumento prediletto da Butler e vero protagonista di pressoché tutti i brani. Pezzo potente, veloce e ritmatissimo Bethlehem è uno dei momenti più interessanti dell’album, con la voce di Will, sottolineata dai cori assicurati dalle immancabili Sara Dobbs (coautrice assieme a Butler di tutte e dieci le tracce) e Julia Shore a fare da controcanto, sempre più convincente, impegnata in uno dei testi più riusciti. “Let me lose my head/ Let me cover my eyes in the ashes and blood /Let me lie down and join the dead /’Cause the best have no position / And the worst are full of /Passion and belief”, recita il ritornello.
All’insegna dell’eclettismo
Will non ama indugiare in un unico stile e come in Policy, anche in Generations i brani si susseguono in una varietà che in questo secondo album non va a detrimento della consistenza. Così il country raffinato di Surrender non stona accanto alle cadenze disco di Hard Times, o alle note classicamente rock di Close My Eyes. Fra i momenti migliori non posso non citare l’ipnotica e sofisticata I Don’t Know What I Don’t Know, con la voce di Butler sublimata da un tappeto di sintetizzatori a creare uno sfondo cupo ed enigmatico.
Il meglio arriva tuttavia in coda, a partire dalla bella Promised, che puo’ contare su un testo elegante e non banale. “I know that for you the world was painful like a fire / I’m waiting – not with patience, nor desire / But soft despair – pale and cold /And knowing that I knew you were a liar” canta Will, dando ulteriore prova di una penna spesso e volentieri ispirata. E’ il caso anche di Not Gonna Die, brano che debutta in sordina, sulle note di un pianoforte, per poi variare di ritmo e acquistare velocità dando vita a una trama complessa nella quale non stonano gli accenti jazzati di un saxofono.
Finale in crescendo per Will Butler e Generations
Chiude magnificamente Fine, pezzo che conferma le ambizioni cantautoriali di Will, dominato dall’immancabile pianoforte, che con le sue sonorità d’antan e vagamente teatrali non stonerebbe in un musical di Broadway. When I was born/ I was wrapped in a sheet, I was / Laid in a crib, and the/ First time that I went to sleep, from the/ Walls of the room, in that hospital so white, came the/ Ghosts of my family, they were / Great forms of light /And some of them are bloody /And some of them are clean, and they /Lay their hands on my head, and they /Started to sing” udiamo in coda al brano. Un disco bello e riuscito per il più giovane dei fratelli Butler.
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