Un doveroso, ma non riuscitissimo, tributo al genio di Tim Hardin.
In un periodo di otto mesi fra il 1965 e il 1966 Tim Hardin scrisse una sequenza di pezzi straordinari, fra cui I Were A Carpenter, portata al successo da Bobby Darin, e Reason To Believe, celeberrima nella versione di Rod Stewart. Svanito quel momento di folgorante creatività, Hardin sbagliò tutto: eroina e alcool gli inaridirono la vena compositiva, suonò a Woodstock ma non lasciò segno o quasi, incise dischi appena discreti, divenne ingestibile anche per gli standard di gente come Marianne Faithfull e morì per un’overdose multisostanza a fine dicembre 1980: i giornali che ancora si dolevano per la morte di John Lennon dedicarono poche righe al “cantautore famoso negli anni ’60”.
Tim Hardin ritorna ‘di moda’
I tempi e i gusti però cambiano e per il mondo psych/alt/post-folk odierno personaggi come Hardin rappresentano eroi dolenti e romantici a cui fare naturale riferimento. Dunque questo album-tributo era immaginabile e auspicabile; peccato che, a dispetto dei bei nomi indie presenti, Reason To Believe non suoni troppo affascinante. In molti casi sembra esserci un problema di approccio. Ad esempio, le Smoke Fairies appesantiscono senza motivo If I Were a Carpenter, mentre Hannah Peel sceglie di cantare tipo filastrocca un pezzo traboccante di cordoglio come Lenny’s Tune (dedicata alla memoria di Lenny Bruce).
Altrove il problema sta all’origine, vale a dire nella scrittura ‘jazzata’ di Hardin, non sempre scorrevole ma funzionale se associata alla voce dolente e perfetta quanto a pitch dell’autore; ecco dunque che cantata da Sarabeth Tucek If I Knew finisce per essere noiosa più che tormentata e lo stesso vale per It’ll Never Happen Again degli Okkervil River, che pure sono cultori della musica di Hardin.
Le cover migliori
Proprio a causa di questa difficoltà di approccio poteva essere una buona idea affidarsi a titoli più folk e fluidi come Tribute To Hank Williams e The Lady Came From Baltimore a cui invece nessuno si è avvicinato. Di qualcosa si può comunque dire bene: la Sand Band entra in sintonia country-cosmica con la dolcezza sentimentale di Reason To Believe e Alela Diane dà un senso di irreparabilità al dolore di How Can We Hang On To a Dream. Detto della performance da sei politico di Mark Lanegan, il migliore del lotto sarebbe in teoria Gavin Clark, ma la sua Shiloh Town è troppo simile a una versione incisa qualche anno fa proprio da Lanegan. La cover della cover non va bene.
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