Blood Orange: la vita difficile di un “cigno negro”.
“Nessuno vuole essere un cigno negro”: così canta il londinese Devonté Hynes in Charcoal Baby (che potremmo tradurre con il termine carboncino). E lo sappiamo bene noi che siamo cresciuti con quel Calimero piccolo e nero cui fortunatamente bastava un buon candeggio per tornare immacolato e attraente.
Negro Swan come ricerca di un equilibrio interiore
Per Blood Orange, questo il nome d’arte assunto dopo due dischi come Lightspeed Champion, la questione è un po’ più complicata. Al quarto album decide di concentrarsi sulla ricerca di un difficile equilibrio interiore, tanto da utilizzare anche un termine come “Negro” ormai bandito, almeno ufficialmente. Ma inutile girarci intorno se sei costretto a nasconderti o a non essere veramente te stesso (“Or be ashamed or hide, Or perform a version of myself that wasn’t really me”), come canta in Dagenham Dream (Dagenham è un quartiere di Londra). O peggio se sei ridotto a baciare il pavimento durante un aggressione adolescenziale (“First kiss was the floor”), evocata con atmosfere sognanti alla Marvin Gaye in Orlando.
Blood Orange tra un passato difficile e un presente ricco di soddisfazioni
Producer e songwriter di successo (Solange, Sky Ferreira, FKA Twigs, Haim, Florence and the Machine, Kylie Minogue tra gli altri), ormai emigrato a New York, Dev sembra conservare il ricordo di un’adolescenza difficile, di una diversità esibita e celata al contempo con la quale nutre una musica assolutamente proteiforme tra alt-pop, progressive R&B, hip-hop. E nessuna sorpresa nel ritrovare anche il gospel in Holy Will o di sentirlo citare il Robert Wyatt di Old Rottenhat per la splendida Take Your Time (parole sue in una bella intervista su Pitchfork). Nessun proclama, nessuna provocazione, solo il sommesso tentativo di dare voce a una personalità costretta suo malgrado a stare sotto riflettori, a esibire ali bianche per volare.
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