Un autorevole giornalista racconta un’epoca musicale strana: Jon Savage’s 1969-1971 – Rock Dreams On 45.
Jon Savage è una delle migliori penne rock esistenti (la migliore?), in grado di unire conoscenza accurata della materia a belle intuizioni creative. Ne è un esempio il recente Joy Division – Autobiografia di una band, concepito in forma di racconto corale. Ma splendido era stato anche 1966, The year the decade exploded (mai tradotto in Italia): una canzone per ogni mese di un anno decisivo nella storia della musica. Per non parlare del superclassico England’s Dreaming (citiamo il titolo originale anziché il banale Punk! nell’edizione italiana), testo definitivo sui Sex Pistols e la nuova onda inglese.
Il progetto 1969-1971 – Rock Dreams On 45
Savage ha anche curato per la Ace una serie di antologie dedicate ad annate importanti della musica rock. Ora, con 1969-1971 – Rock Dreams On 45, si cimenta in un’impresa tematica più elaborata. L’arco di tempo coperto dal doppio cd è il triennio 1969-1971- e la materia è costituita da 43 brani usciti come singoli in quel periodo. Per quanto un paio siano classici del XX secolo (1969 degli Stooges, Sweet Jane dei Velvet Underground) e altri due-tre titoli abbiano avuto ottimi riscontri di vendita (ad esempio Spirit In The Sky di Norman Greenbaum), in linea generale Savage scegli un percorso all’insegna della semioscurità. Non a caso diversi pezzi sono in realtà lati B dei 45 in questione (fra questi proprio Sweet Jane – complimenti alle scelte di marketing della Atlantic!).
Disillusione più che Rock Dreams
Semioscurità, se non buio senza mezze misure, è anche il tema socio-emozionale della raccolta, che non a caso ha come sottotitolo “Revolution and its aftermath”. In realtà la rivoluzione non c’è e in molti brani si sente aria di disillusione, oppure di rabbia come per gli MC5 di American Ruse. Nei testi spuntano figure fosche come la strega dei Jethro Tull (The Witch’s Promise) o da incubo come The Green Manalishi, orrido demone verde e bifronte raccontato da Peter Green dei Fleetwood Mac.
Il contesto sonoro è un rock venato di blues e di acidità, poco hippie, poco ballabile, lontano anche dal prog che si stava affermando. Insomma un’assemblea di perdenti neppure troppo magnifici, ma emblematici. Alcune cose sono valide a prescindere, altre suonano inevitabilmente datate e utile solo a dimostrare la tesi del compilatore. A tal proposito occorre dire che nel libretto di accompagnamento Savage risulta meno convincente del solito nel tratteggiare quest’epoca di transizione e di divisioni (ad esempio fra chi ballava e chi lo riteneva frivolo) – forse avrebbe avuto bisogno di maggiore spazio. Dopo aver proposto un’interessante trimurti tedesca (Amon Düül II, Tangerine Dream, i dimenticati Rattles), il lavoro arriva alla conclusione con un pezzo che anticipa un punk ancora tutto da sagomare, Yesterday’s Numbers dei Flamin’ Groovies. Con il loro suono pre-hippie e la loro rabbia venata di malinconia sembravano vecchi. Invece erano i più nuovi di tutti, ma nessuno ancora lo sapeva.
A proposito di punk in nuce, Savage ci offre uno spunto geniale. A suo parere lo Ian Anderson di The Witch’s Promise a Top Of The Pops nel 1971 “con le sue smorfie e i suoi occhi sbarrati inventa, in buona sostanza, Johnny Rotten”. Ha ragione: guardare per credere.
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