Dopo sei anni di assenza e molti problemi tornano i Queens of the Stone Age con In Times New Roman.
Un nuovo disco dei Queens of the Stone Age è sempre un evento per gli amanti del rock, alt- e non, e In Times New Roman arriva dopo anni di silenzio, dal momento che il precedente Villains era uscito nel 2017. Le ragioni dell’assenza le ha spiegate chiaramente Josh Homme in una recente intervista:
“Penso che quando si affrontano gli alti e bassi estremi della vita, non ci si ferma a pensare: ‘Dovrei proprio fare un disco’. Queste cose non esistono in quel momento. Se il tuo tetto si riempie di acqua, non dici: “Dovremmo fare un disco su questo!”. Devi impedirti di annegare in un’alluvione. L’abbiamo registrato probabilmente due anni e mezzo fa, ma è rimasto lì in attesa di essere finito. L’ho cantata solo lo scorso novembre. Non avevo ancora finito di vivere. Onestamente, forse avevo paura. Non ero pronto. Hai bisogno che l’inondazione sia finita, e poi puoi decidere se puoi accettare l’inondazione. Credo che, essendo questo un disco sull’accettazione, sia necessario arrivarci da soli“.
Cosa è successo dopo Villains
L’inondazione è stata emotiva. Non soltanto il covid, ma drammi più personali hanno colpito Homme riverberandosi anche sul resto della band, ormai in formazione stabile da qualche anno con Troy Van Leeuwen, Michael Shuman, Dean Fertita e Jon Theodore – che con lui firmano e producono il disco. Il divorzio da Brody Dalle, la frontwoman dei Distillers, dopo quasi 14 anni di matrimonio, con denunce e ordini restrittivi da entrambe le parti, e con un lungo braccio di ferro per i figli, ha certamente pesato. Così come la morte di numerosi amici: Mark Lanegan, ovviamente, ma anche il batterista dei Foo Fighters Taylor Hawkins e il migliore amico di Homme, l’attore Rio Hackford, nonché il suicidio dello chef Anthony Bourdain, pure una sua frequentazione. E infine, come se non bastasse, una operazione per asportare un tumore, a quanto pare (e speriamo) riuscita.
Pregi e difetti di In Times New Roman
Non è infatti un disco allegro, In Times New Roman, ma nemmeno depressivo, anzi semmai Queens of the Stone Age recuperano qualcosa degli esordi per parlare dei drammi collettivi e dei traumi personali. Non bisogna però neppure esagerare, così come si legge in giro, perché se è vero che il disco è meno pulito e pop di Villains, non è neppure lontanamente granitico come Rated R o Songs for the Deaf. D’altra parte, sono passati vent’anni e più, e questo già da sé significa molto.
In Times New Roman non comincia molto bene, poiché per qualche strana ragione Queens of the Stone Age hanno deciso di mettere i pezzi più significativi a partire dai 2/3 del disco. Time & Place è infatti il primo che lascia un’impressione, ma ancora meglio fa il glam-hard-rock di Made To Parade. Giusto a metà Carnavoyer è l’apice del disco, ma tanto per continuare il discorso su passato e presente di Homme e QOTSA, sarebbe stato bene sull’eccellente Post Pop Depression di Iggy Pop. Comunque sia, Homme & Co imbroccano la vena giusta.
Da qui in poi va tutto bene. What the Peephole Say, qualche richiamo stoner in Sicily, il singolo Emotion Sickness e la lunghissima chiusura di Straight Jacket Fitting, nove minuti e molti cambi di ritmi e atmosfera. Alla fine l’impressione è che i Queens of the Stone Age di In Times New Roman siano ancora vivi e, senza dire nulla di nuovo, riescano a mettere insieme dieci canzoni con qualche numero eccellente. Se sia poco o abbastanza dipende da quanto amore avete per il genere e per la band.
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