Mirror II e la divertita maturità dei Goon Sax.

Li abbiamo seguiti fin dalla nascita, i Goon Sax; prima con Up To Anything e poi con il suo seguito, We’re Not Talking. Sempre sorpresi dalla loro freschezza, fa piacere ritrovarli alla prova, spesso cruciale, del terzo album. Di certo più maturi, i tre musicisti australiani si presentano con un produttore eccellente, John Parish, e un nuovo contratto con la indie newyorchese Matador. Parish, di certo un eclettico, ha prodotto, tra gli altri, PJ Harvey, gli Eels, i Giant Sand e persino Tracy Chapman. In questo caso la sua mano sembra aver ritoccato appena la musica dei Goon Sax, aggiungendo colori, atmosfere e qualche consiglio.
Suoni e referenti di Mirror II
Le canzoni rimangono oblique, e il suono sempre più legato alle varie anime della new wave degli anni ‘80 e ‘90. Anche certi punti di riferimento, come i Talking Heads degli inizi, rimangono ben saldi, almeno quando le voci maschili entrano in gioco. Forse ciò che risalta di più in Mirror II è l’allontanamento dall’innocenza degli esordi, per tale ragione il disco sembra meno fresco, più calcolato ma anche più vario. Di questo non sembra responsabile Parish, che lustra dove serve, come in Psychic, o lascia correre come nell’incerta Temples.
I Goon Sax e i guai della democrazia
Un altro punto debole, alla lunga, potrebbe essere l’eccessiva democrazia interna: cantano e compongono tutti e, per forza di cose, qualche passaggio suona sfocato. I momenti migliori del disco risultano Tag e Desire, forse perché la voce della batterista Riley Jones si fa preferire alle altre. Ma diverte parecchio anche la rutilante Bathwater, con i suoi cambi di velocità e un sax birichino. Forse è scorretto definire Mirror II (a dispetto del titolo) una fotocopia dei precedenti, ma qualche aspetto va ridefinito a tavolino. A quel punto Louis Forster (quello con il papà importante), James Harrison e Riley Jones potranno consegnarci un disco più maturo e coeso, ammesso che ciò sia tra le priorità dei tre giovinastri…
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