Stephen Stills - Live at Berkeley 1971

Lo storico live at Berkeley 1971 di Stephen Stills finalmente vede la luce.

Ci sono dischi appena pubblicati che si rivelano immediatamente per quello che sono: vecchi, inutili e pretenziosi. Se vi viene in mente Songs of Surrender degli U2 o, nel versante italico del pop, Elvis dei Baustelle, ci siamo capiti. Ci sono poi dischi tanto essenziali nella loro semplicità cristallina che, sebbene riprendano musica e storie di decenni fa, paiono trasportarvi in un luogo e in un tempo che vi appartiene anche se non ci siete mai stati e non eravate ancora nati. Per qualcuno, diventano portali spazio-temporali verso una cultura e uno stile che riempiono di senso.

Un artista in stato di grazia

È il caso di Stephen Stills live at Berkeley 1971, entusiasmante sintesi di due concerti che il texano del supergruppo (all’epoca) più famoso d’America tenne al Berkeley Community Theatre il 20 e il 21 agosto di quell’anno.

Insieme a lui, in due canzoni, David Crosby e, nelle scorribande elettriche che seguono le esibizioni soliste alla chitarra acustica e al piano, tre futuri Manassas: Calvin Samuels al basso, Paul Harris all’organo e Dallas Taylor alla batteria. Ancora, il chitarrista Steve Fromholz e il percussionista Joe Lala. Infine The Memphis Horns, cioè la sezione fiati formata da Wayne Jackson, Andrew Love, Sydney George, Roger Hopp e Jack Hale Sr.

Quella che viene fuori è una celebrazione della «tintinnante musica del cielo del West», come Jimi Hendrix, che di Stills fu amico, definì le chitarre in armonia di Crosby, Stills, Nash & Young. Se Crosby era il più talentuoso, Neil Young il più prolifico, Graham Nash il collante resiliente delle personalità umbratili ed egoiste degli altri tre, Stills era il più dotato di sapienza e di tecnica musicale. L’aver viaggiato fin da ragazzo a causa dei trasferimenti del padre militare l’aveva portato a imparare, oltre all’originaria matrice folk, il blues e la musica sudamericana, sviluppando uno stile personale che aveva attratto lo stesso Hendrix.

L’importanza del 1971

Fu l’anno in cui i quattro si ritrovarono reduci dalla prima di molte separazioni. La causa scatenante fu la passione conflittuale di Stills e di Nash per la cantante Rita Coolidge (ma lei ha negato), come Crosby narrò nella formidabile allegoria di Cowboy Movie. Nel 1970, fino a luglio, c’era stata la tournée americana che li aveva resi grandi e che, grazie all’acribia instancabile di Nash, troverà riscontro ad aprile del ‘71 nel doppio album 4 Way Street, numero uno nella classifica di Billboard. Fu un disco generazionale che tuttora trasmette il senso di ciò in cui credevano i giovani americani di allora e che solo riduttivamente può essere sintetizzato nella formula hippie di “pace e amore”, o nella contestazione alla guerra del Vietnam.

In termini di valore, quel grande disco è però secondo all’eccezionale esordio solista di Crosby, If I Could Only Remember My Name, definitivo manifesto del sound della West Coast pubblicato a febbraio. A maggio ci sarà l’esordio solista di Nash con il piacevole Songs For Beginners. Stills pubblicherà a luglio il suo secondo album solista, notevole come il primo e anch’esso intitolato, con poca fantasia, con il suo nome e, in aggiunta, il numero due. Nessun disco, invece, per Neil Young. Egli terminò il tour solista, in prevalenza alla chitarra acustica per i guai alla schiena che gli impedivano di stare in piedi, dopo aver pubblicato, l’anno prima, After the Gold Rush. Registrò inoltre l’album che sarebbe diventato, l’anno dopo, il suo principale successo commerciale e di classifica (numero uno negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada): Harvest.

Stephen Stills – Live at Berkeley 1971 è il tassello che mancava

Stephen Stills live at Berkeley 1971 era il tassello che mancava per documentare l’attività dal vivo dei quattro in quell’anno importante: Crosby & Nash in duo, Stills e Young da soli. Nel 1998 i primi avevano pubblicato Another Stoney Evening, un bel concerto acustico a Los Angeles. Young, dai suoi archivi, in anni recenti ha rilasciato addirittura quattro dischi con altrettanti concerti: l’eccellente Live at the Massey Hall 1971 (2007) più Young Shakespeare (2021), Dorothy Chandler Pavillion (2022), Royce Hall 1971 (2022).

Un tour contraddittorio

Stills arriva a Berkeley dopo una fase d’iperattività che l’aveva visto pubblicare i suoi primi due album solisti a distanza di sei mesi. Addirittura avrebbe voluto che il secondo fosse doppio, scartando canzoni, in parte proposte dal vivo come Jesus Gave Love Away for Free, che avrebbero fatto parte, l’anno dopo, del doppio omonimo album dei Manassas. Aveva introdotto i Memphis Horns suggestionato da gruppi come i Blood, Sweet and Tears: idea interessante, ma distante dal folk e dal blues acustico che erano il suo marchio di fabbrica.

Quelli proposti in Stephen Stills live at Berkeley 1971 sono estratti dagli ultimi di cinquantadue concerti per altrettante date denominati The Memphis Horns Tour. In crisi di autostima, Stills aveva iniziato a bere e gli spettacoli erano stati sardonicamente definiti The Drunken Horns Tour. Aveva promesso «il più grande road show da quando Ray Charles è salito su un palco», ma alla fine si era convinto che si trattasse d’una maratona in cui, disse, si guardava il cantante sanguinare cercando di cantare diciotto canzoni in fila.

All’epoca furono parecchie le critiche. Condizionato da precedenti vicissitudini personali tra cui un arresto per il possesso di pillole illegali e la rottura con la Coolidge, egli stesso percepì negativamente quel tour. Eppure fu in quei giorni che incontrò Chris Hillman e furono creati i presupposti per costituire i Manassas. Dopo la morte d’un operaio caduto accidentalmente da un palco a New York e un incidente di motocicletta in cui si ruppe i legamenti d’un ginocchio, Stills chiamò in aiuto Crosby.

Un inedito sodalizio

Crosby & Stills fa un po’ pensare a Carmaux e Wan Stiller, i due filibustieri sodali del Corsaro Nero di Emilio Salgari. L’inedita collaborazione è testimoniata sul disco da due canzoni: You Don’t Have to Cry dal primo, omonimo album di Crosby, Stills & Nash, più veloce e meno bella dell’originale, e una versione ispirata della The Lee Shore di Crosby il cui sentore di sabbia e di mare è arricchito dal caratteristico fingerpicking di Stills che due anni dopo, in un concerto del terzetto al Winterland di San Francisco, sarebbe stato abilmente e inesorabilmente servito a sfottere il sentimentalismo dell’amico (video in basso).

Il resto del repertorio propone per la maggior parte, prevedibilmente, canzoni dal primo e dall’appena pubblicato secondo album solista. Sono quattro e cinque a testa. Love the One You’re With, Do for the Others, Black Queen e Cherokee appartengono al primo. Know You Got To Run, Word Game, Bluebird Revisited, Sugar Babe, Ecology Song al secondo. Fanno eccezione, oltre alle menzionate due con Crosby e a quella destinata ai Manassas, il medley al pianoforte tra 49 bye-byes, dal primo di Crosby, Stills & Nash, e For What Is Worth, successo a 45 giri dei tempi dei Buffalo Springfield, nonché Lean on di Wayne Jackson.

Stephen Stills – Live at Berkeley 1971: un disco da custodire

Vale la pena ascoltare tutte le quattordici canzoni proposte. Opportunamente, però, i fiati rhythm and blues risuonano solo nelle ultime quattro (splendida Cherokee, dilatata a quasi dieci minuti, dedicata alla Coolidge). Nelle prime dieci Stills esprime, con ispirazione e passione, tutto il suo talento di folksinger e bluesman. Un anno dopo, nel doppio album dei Manassas, proporrà una canzone, appunto Blues Man, dedicata alla memoria dei caduti Hendrix, Alan Wilson e Duane Allman. La forza disincantata della musica della sofferenza aveva all’epoca innervato anche l’allora ventiseienne di Dallas, che a Berkeley raggiunge l’apice del coinvolgimento emozionale proprio nei tre sofferti blues alla chitarra acustica e al banjo: Word Game, appena appena inferiore all’inarrivabile versione su disco, Black Queen, strepitosa, e Know You Got To Run.

Nonostante il male di vivere, Stephen Stills conserva quell’approccio schietto alla musica che in seguito avrebbe gradualmente declinato senza riuscire a sostituirlo, se non occasionalmente, con il professionismo. Si ascolti, ad esempio, un disco a tratti bello ma inutile come Stephen Stills Live, pubblicato alla fine del 1975, suo primo dal vivo. Siamo lontani anni luce, nonostante i bagliori d’un talento ancora vivido, dalla bellezza di questo (nella versione in vinile) doppio album. Una ragione in più, per l’autore ormai settantottenne, di far riemergere dal suo archivio la polvere di stelle della gioventù tormentata.

Stephen Stills - Live at Berkeley 1971
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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