Con False Lankum tornano i Lankum, per niente falsi e molto foschi.
Da un po’ di tempo l’Irlanda sta occupando molte delle pagine qui a tomtomrock. I dischi di Lisa O’ Neill, dei Mary Wallopers e, malauguratamente, l’ultimo U2, sono stati segnalati e consigliati (o viceversa). I dublinesi Lankum, qui al terzo disco (più uno come Lynched) trattano il canone della tradizione come un buon fornaio tratta il suo impasto: lo schiaccia, lo batte, lo torce e infine lo crea a suo piacere, accarezzandolo per dargli forma.
L’approccio dei Lankum è chiaro fin dal primo brano
I fratelli Lynch, Ian e Daragh, con Radie Peat e Cormac Mac Diarmada suonano complessivamente una trentina di strumenti in un amalgama sorprendente e, a tratti, pure soverchiante. Sono aiutati da una manciata di amici musicisti, in modo che non manchi nulla. A conferma di quanto sopra, basta ascoltare il primo brano di False Lankum, Go Dig My Grave. Si tratta di una lacerante, tragica folksong di tre-quattro secoli fa, che parte in sordina; al quarto minuto, però, un bordone di una frequenza al limite del sopportabile accompagna il brano verso il sospirato finale. Come se non bastasse, un timpano (vero o elettronicamente creato) ne segna l’inesorabile avanzata, mettendo a prova i woofer del nostro impianto.
Ma anche il resto di False Lankum mantiene la stessa intensa cupezza
A questo coraggioso inizio seguono brani meno disturbanti, persino sognanti e melodici, ma anche suite di reels destrutturate fino all’evaporazione del tema. In più, alcuni strumentali, autonomi o legati alle canzoni, aggiungono toni funerei, o marziali, per esaltare i temi crudi e drammatici delle ballad. Il brano finale, The Turn, firmato dal gruppo, torna a spiazzare, con un minutaggio considerevole di tredici minuti e un finale rumoristico di oltre tre.
Ancor più che in The Livelong Day, il disco precedente, i Lankum di False Lankum (pubblicato da Rough Trade) si dimostrano innovatori senza requie e amanti del rischio creativo. Tutto, però, all’interno di una tradizione, quella irlandese, che ha sempre tratto giovamento più dalla novità che dalla conservazione.
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